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NEWS LIBRI PUBBLICATI

Introduzione

            L’attuale momento storico è dominato dal Coronavirus, il virus (Covid-19) che è un evento epocale, che segna un prima e un poi, che ha già cambiato il XXI secolo e persino il modo di vederlo. Il Covid-19 ha sconvolto il sistema di vita a livello mondiale, creando una terribile pandemia. Gli sconvolgimenti sono stati politici, economici, sociali, nazionali e planetari.

            Il virus ha disturbato sensibilmente l’armonico accordo delle sfere elementari della vita, portando con sé la malattia. Certamente le malattie sono viaggi verso il lato oscuro della vita, però sappiamo anche che “essere ammalati” non significa necessariamente “essere sconfitti”. Nella malattia e con la malattia ci è offerta anche la possibilità di una migliore salute, vissuta più consapevolmente.

 “Indagare sulle malattie” in un contesto cosmico significa mettere a nudo impietosamente le ferite che l'uomo stesso ha inferto a quel corpo che è il mondo, a questo pianeta vivo, intelligente e animato.

Col termine “mondo” intendiamo il nostro mondo terreno, il regno dell'uomo con il mondo circostante, con il mondo umano, con il mondo delle sue esperienze e del lavoro. San Francesco d’Assisi chiama questo mondo “sora nostra madre Terra” e Papa Francesco, nell’Enciclica Laudato si’, ammonisce che “Questa sorella protesta per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei” (LS, 2).

Infatti, l'uomo si va atteggiando sempre più a “creator mundi”. In virtù delle sue facoltà intellettuali e della sua sfrenata fantasia si è liberato della condizione di oggetto dell'evoluzione e si è elevato a soggetto autore di tale evoluzione. Si è impadronito della flora e della fauna e non soltanto per sfruttarle; è in grado di modificarle, nonché di produrre chimere “creative”, come finora se ne trovavano soltanto nel mondo delle fiabe e nella mitologia. Senza pietà l'uomo ha incluso nel suo dominio qualsiasi creatura non umana. Per la prima volta il destino di tutto il mondo animato è nelle sue mani.

Avendo riconosciuto questo, l'uomo saggio potrebbe ravvisarvi più facilmente la tendenza al bene, ciò che presumibilmente o realmente tende al progresso, a uno svilupparsi verso “livelli superiori”. Dalla crisi non discendono infatti catarsi, purificazione, rinnovamento, cambiamento e inversione di rotta?

Quel che il Coronavirus ha scatenato non è una rivoluzione, come qualcuno immagina, bensì un'involuzione. Il che non vuol dire, tuttavia, che questa sosta improvvisa non possa essere pausa di riflessione, intervallo prima di un nuovo inizio. Ciò che appare con chiarezza è l'irreversibilità.

Non si può nascondere il desiderio di cambiamento che, negli ultimi anni, è andato aumentando a causa di un sistema economico ingiusto, perverso e obsoleto, i cui effetti sono fame e ineguaglianza sociale, guerra e terrore, collasso climatico del pianeta, esaurimento delle risorse. Adesso, però, a sconvolgere il mondo è un virus. Non l'evento che si attendeva – quello che, nella bufera incessante, tra le macerie del progresso, avrebbe tirato il freno d'emergenza della storia.

Il virus imprevisto ha sospeso l'inevitabile del sempre uguale, ha interrotto una crescita divenuta nel frattempo un'escrescenza incontrollabile, senza misura e senza fini. Ogni crisi contiene sempre la possibilità del riscatto. Il segnale sarà avvertito? La violenta pandemia sarà anche la chance per cambiare? Il Coronavirus ha sottratto i corpi all'ingranaggio dell'economia. Tremendamente mortifero, è però anche vitale. Per la prima volta la crisi è extra-sistemica; ma non è detto che il capitale non saprà trarne profitto. Se nulla sarà come prima, tutto potrebbe precipitare nell'irreparabile.

Si può dire che l'epidemia globale scatenata dal Covid-19 sia il terzo grande evento del ventunesimo secolo. Dopo l'attacco terroristico dell'11 settembre 2001 non si può infatti dimenticare la grave crisi finanziaria e creditizia del 2008 che, scoppiata per una bolla immobiliare, ha provocato negli anni, attraverso meccanismi di contagio, una recessione globale e un indebitamento smisurato. Molte sono le somiglianze tra la crisi finanziaria e quella sanitaria. Anche la finanza ha i suoi virus. Ma al di là delle metafore, il Covid-19 viene dal corpo e dall'esterno ferma l'ingranaggio capitalistico. I nessi, però, tra quella congiuntura e questa, sono stringenti. Una crisi rinvia all'altra e, anzi, l'annuncia e la prepara, in una sorta di ininterrotta catena catastrofica.

L'alba del terzo millennio è caratterizzata da un'enorme difficoltà di immaginare il futuro. Si teme il peggio. Non c'è più attesa, né apertura all'avvenire. Il futuro appare chiuso, destinato nel migliore delle ipotesi a riprodurre il passato, reiterandolo in un presente che ha le sembianze di un futuro anteriore.

Ma forse verremo fuori da questa pandemia con una patente di immunità che attesti i nostri anticorpi. Passeremo, quasi per abitudine, fra sofisticati termoscanner e fitti circuiti di videosorveglianza, in luoghi e non-luoghi sanificati, mantenendo la distanza di sicurezza, guardandoci intorno cauti e diffidenti. Le mascherine non ci aiuteranno a distinguere gli amici, e a venirne riconosciuti. A lungo continueremo a scorgere ovunque asintomatici che, ignari, annidano in sé la minaccia intangibile del contagio. Forse il virus si sarà già ritratto dall'aria, scomparso, dissolto; ma ne resterà a lungo il fantasma. E non avremo ancora l'affanno, il fiato corto.

Potremo raccontare quell'evento epocale che abbiamo vissuto. Lo faremo da sopravvissuti – inconsapevoli, magari, dei rischi che ciò nasconde. Non solo per le insidie della rimozione; né solo per quell'impegno che la vita ha di portare con sé la vita che non c'è più, di riscattarla e indennizzarla, nel lavoro infinito del lutto. La sopravvivenza può inebriare, esaltare. Può diventare una sorta di piacere, una soddisfazione insaziabile, ed essere presa persino come un trionfo. Chi è sopravvissuto, chi è sfuggito alla sorte che si è abbattuta sugli altri, si sente privilegiato, favorito. Questa sensazione di forza prevale persino sull'afflizione. Come se si avesse dato buona prova di sé, e si fosse in un certo senso migliori. Bandito il pericolo, si avverte la prodigiosa, eccitante impressione di essere invulnerabili. Proprio questa potenza del sopravvissuto, la sua rinnovata vulnerabilità, potrebbe rivelarsi un boomerang, un danno di ritorno, spingendolo a credere di poter restare indenne anche in futuro.

Saremo dunque sopravvissuti sani e salvi, immuni e immunizzati, forse già vaccinati, sempre più protetti e assicurati, in lotta per indennizzi e indennità. Celebreremo una certa resistenza, lasciando indistinto il confine tra lotta politica e reattività immunitaria. Non potremo ritenerci reduci o scampati da un conflitto perché, anche se il gergo militare ha dominato la narrazione mediatica, sappiamo che non è stata una guerra. Immaginare così quel che è avvenuto sarebbe un errore reiterato, un ostacolo per ogni riflessione. Non è stata una guerra – nessuno ha vinto. Molti sono stati sopraffatti senza poter combattere; molti hanno perso tutto, integrità e proprietà. Proprio quelli che possedevano meno degli altri, i più indifesi, i più esposti.

Essere usciti indenni da quest'inedita e immane catastrofe del respiro non autorizza a credere di essere intatti e inaccessibili al danno. L'indennità non salva. E più che un successo, si capovolge nel contrario. È come quando il rimedio si rivela un veleno. Perché fallisce il tentativo di evitare a tutti i costi il danno, di calcolare l'incalcolabile, di innalzare iperdifese. L'organismo che, nell'intento di tutelare la propria indennità, manda in giro la truppa dei suoi anticorpi per impedire l’ingresso agli antigeni stranieri, rischia di autodistruggersi. È quel che mostrano le patologie autoimmuni. Bisogna allora proteggersi dalla protezione. E dal fantasma dell'immunizzazione assoluta.

            Questo libro è stato scritto nel momento particolare di pandemia da Covid-19 ed ha il fine di indurre a fare delle riflessioni sulla nostra esistenza e a nutrire delle speranze per una rigenerazione culturale e morale e per una crescita spirituale.

La tesi di fondo di tutto il libro è che la pandemia che ha sconvolto il nostro sistema di vita non è la fine di tutto e che “essere ammalati” non significa necessariamente “essere sconfitti”. Dalla crisi possono discendere catarsi, purificazione, rinnovamento e cambiamento.

La rinascita, comunque, non sarà soltanto un problema di risorse economiche, ma sarà, soprattutto, un risveglio culturale e una inversione di rotta. Edgar Morin annota che è necessario che “Cambiamo strada”1.

Il libro, dopo avere esaminato origine e diffusione del virus, parla di crescita post-traumatica, enfatizzando non solo la capacità di “resistere” al trauma, ma anche e soprattutto di trasformare quest’ultimo come una opportunità, appunto, di crescita.

Il libro, inoltre, invita ad affrontare le sfide del terzo millennio e ci insegna che è sempre possibile riarticolare le forme di vita e che è necessario chiedersi per cosa vivere in futuro, che è indispensabile guardare a quei confini ultimi che abbiamo disimparato a sognare.

Il post-Coronavirus è inquietante tanto quanto la crisi stessa. Potrebbe essere sia apocalittico sia portatore di speranza. Molti condividono la sensazione che il mondo di domani non sarà più quello di ieri, poiché la società è in continua trasformazione. Un mondo nuovo ci aspetta. Ma il mondo nuovo non nasce da solo, e sarebbe una grande tragedia lasciarlo nascere nel caos. Per questo, abbiamo il compito di ridefinire un nuovo umanesimo, che da Edgar Morin è chiamato umanesimo rigenerato, che essenzialmente  è un umanesimo planetario.2

NOTE

1 Morin E., Cambiamo strada, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2020.

2 Ibidem.

Conclusione

            La pandemia da Covid-19, pur rappresentando un momento drammatico per l’umanità intera, presenta un’opportunità senza precedenti per avviare una riflessione sulla nostra esistenza e per impostare  progetti finalizzati a realizzare un mondo più a misura di persona.

      A seguito della pandemia, si è constatato che la nostra epoca, immersa in problemi economici, produttivistici e consumistici, va perdendo il «senso della vita». Si constata come sia venuta meno una visione antropologica che consenta di affrontare tutti i problemi relativi all’esistenza umana da un punto di vista globale, che tenga conto di ciò che l’uomo è, prima ancora di ciò che l’uomo dovrebbe fare. Oggi i problemi umani vengono affrontati più in chiave di «fare» che non in chiave di «essere». In altri termini, si potrebbe dire che oggi l’uomo sta dimenticando chi egli «è», sta smarrendo se stesso.

Si scivola così insensibilmente, ma inesorabilmente, in un senso di assurdità, di sfiducia, di insoddisfazione, di vuoto.

Un abbozzo di diagnosi di tale fenomeno spinge a ricercarne le cause: esse vengono individuate non solo nel dilagante conformismo, ma anche in un indottrinamento riduzionista che vede nell’uomo «nient’altro che» un fascio di istinti e nei valori «nient’altro che» meccanismi di difesa.

In tale prospettiva, non meraviglia affatto la profonda frustrazione esistenziale in cui piomba improvvisamente l’uomo che vede la sua esistenza destituita di qualsiasi significato.

Perché l’uomo possa riprendere terreno, è indispensabile una visione antropologica che consideri fondamentale la ricerca di significati, di valori, di contenuti autentici.

Occorre, pertanto, impostare una “nuova” visione della vita e dell’uomo, riconquistare una nuova humanitas, percorrere un cammino che porti alla saggezza, intesa come disponibilità a penetrare il significato della vita nella sua stessa vita di nascita e di morte, nel suo slancio di elevazione di oltre.

            Nella post pandemia, la questione etica deve essere postulata come la questione fondamentale circa il rapporto dell’uomo con se stesso e con la natura. Siamo posti seriamente di fronte al problema dei rapporti tra scienza ed etica. Siamo arrivati a una spaventosa carenza, se non alla perdita, di vincoli etico-morali. Questa frattura conduce all’infermità, a malattie terribili in questa epoca della paura. Ma malattia non deve necessariamente significare sconfitta, decadenza e morte. Un’atmosfera catastrofica e apocalittica riuscirà ben poco ad aiutarci a uscire dalla crisi di questo nostro tempo. Invochiamo invece il principio della speranza.

La nostra grande occasione sta nello sforzo per uscire dal circolo vizioso di un'eccessiva razionalità e di un'eccessiva irrazionalità e per recuperare l'equilibrio tra i due elementi che costituiscono la nostra natura, poiché l'elemento razionale e quello irrazionale si contraddicono tanto debolmente quanto il sentimento e la ragione. Bisogna restituire dunque alla psiche malata la forza dei sentimenti, porre fine all'atrofia e al disprezzo di quel fondamento sostanziale che per completezza definiamo sentimento. Bisogna guardare quell'arco portante teso fra le polarità del nostro essere in un riferimento complessivo con la realtà, in cui tutte le sfere esistenziali confluiscono in un'acquisizione di conoscenza: le scienze naturali come pure l'arte, la filosofia, la religione.

E quindi bisogna fare l'esperienza di conoscere di nuovo il religioso, quel timore reverenziale, quel mysterium tremendum, fascinosum et augustum che si prova di fronte al creato e di fronte a Dio.

            L'uomo che si chiude nell'ambito del finito non arriverà mai a esaudire i suoi desideri. Non appena possiede un bene caduco, questo "avere" genera già un "volere qualcosa di più e di altro", poiché nulla di ciò che il suo desiderio appaga assicura una soddisfazione duratura. Il rifiuto della trascendenza del rapporto con Dio rende l'uomo vittima e schiavo del suo insaziabile "voler avere". Cupidigia genera cupidigia... pretesa genera pretesa.

            Allora la religione rappresenta un principio fondamentale di speranza, poiché apre l’uomo alla “dimensione dell’altezza”, assicurando protezione e cura in un mondo malato.

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